La ricerca “Generazione I…n Europa” edizione 2013 dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca, promosso da Fondazione Intercultura e Fondazione Telecom Italia (dati elaborati da Ipsos), è stata presentata oggi a Torino presso l’Unione Industriale davanti ad una platea di addetti ai lavori della scuola e 500 studenti degli istituti superiori. In particolare, l’Osservatorio ha per questo anno intervistato un campione di 2.275 studenti di Francia, Germania, Polonia, Spagna e Svezia in merito alle attività di internazionalizzazione delle loro scuole e sulla percezione che hanno di sé e dell’ambiente che li circonda relativamente alla loro apertura verso altre lingue e culture. I risultati del campione sono stati confrontati con quelli degli 800 studenti italiani intervistati lo scorso anno sugli stessi temi.
Dalla ricerca emerge come l’integrazione a scuola oggi sia una consolidata realtà ma al tempo stesso in molti casi una situazione ancora difficile da gestire; parallelamente, la scuola italiana si trova incapace nell’essere al passo con l’Europa nel percorso verso l’internazionalizzazione. Se infatti nel 2012 il dato che vedeva il 53% degli istituti italiani attivare almeno un’iniziativa di internazionalizzazione all’anno era stato considerato un elemento rassicurante, l’amaro risveglio arriva quest’anno nel confronto con le scuole di altre 5 nazioni europee; è infatti un’importante differenza quella che ci divide rispetto agli altri Paesi, compresi quelli che dovrebbero condividere il nostro attuale difficile momento economico: sviluppano iniziative di apertura verso l’estero il 97% delle scuole in Germania, l’89% in Spagna, l’88% in Polonia, l’81% in Francia e il 79% in Svezia.
Nonostante gli istituti italiani risultino i meno attivi tra i Paesi europei considerati, vi è tuttavia una nota positiva su cui riflettere per comprendere in quale direzione procedere per far tesoro degli esempi di buone pratiche: la metà delle scuole italiane che sviluppano attività coinvolge infatti percentualmente più studenti che gli altri Paesi, ad eccezione della Germania (Italia e Francia: 72%; Germania: 84%; Spagna: 66%; Polonia e Svezia: 56%). I dati si riferiscono in particolare alla percentuale di studenti che hanno partecipato ad almeno un’attività di internazionalizzazione, in quelle scuole che hanno organizzato almeno un'attività internazionale: il numero medio dei progetti organizzati in questo caso sale a 3,1, quasi il doppio rispetto agli altri Paesi (Francia 1,6, Germania 2, Polonia 1,9, Spagna 1,8, Svezia 2,1), mentre siamo secondi solo alla Germania (84%) e alla pari con la Francia, nel tasso di partecipazione ad almeno un progetto (72%), rispetto al 56% della Polonia e della Svezia.
«Si può affermare che l’internazionalizzazione passa attraverso l’esperienza – spiega Roberto Ruffino, Segretario Generale della Fondazione Intercultura - Avere al proprio attivo qualche esperienza di progetti internazionali, pone la singola scuola in una posizione più favorevole rispetto ad altre, e ne aumenta la probabilità di partecipazione: ciò è evidente rispetto al CLIL, agli scambi di classe e anche rispetto ai vari progetti in generale: l’elemento cruciale sembra essere il momento di “iniziazione delle scuole all’internazionalizzazione”; occorre accompagnarle nella fase iniziale del processo per dare loro modo di continuare il percorso in piena autonomia. Il processo di internazionalizzazione appare disomogeneo, sia tra le tipologie di scuola, sia tra le aree geografiche; è evidente che, se lasciato alla discrezione e capacità del singolo, le differenze tendono ad accentuarsi, cristallizzando il generale livello di internazionalizzazione della scuola: le poche scuole particolarmente attive lo diventano sempre più, ma non possono compensare l’assenza di attività nella maggior parte degli istituti; è necessario un intervento che armonizzi il processo».
Tra gli interventi più immediati vi sono quelli derivanti dall’utilizzo delle nuove tecnologie che, dati alla mano, favoriscono gli istituti italiani ad intraprendere un percorso internazionale (tra le scuole italiane già attive, il 34% ha fatto ricorso alla tecnologia). Su questo punto si è particolarmente soffermato il Segretario Generale della Fondazione Telecom Italia Marcella Logli, nel suo intervento: «Occorre mettere in campo iniziative e programmi quanto più innovativi e sfidanti, per agevolare la scuola italiana a migliorare i processi di internazionalizzazione e recuperare velocemente il gap che la penalizza a livello europeo. Essere cittadini del mondo deve rappresentare, soprattutto per le nuove generazioni, un’occasione unica di sviluppo ed emancipazione, uno straordinario volano di crescita per nuove opportunità professionali e personali, un’ insostituibile esperienza formativa. In questo sono essenziali le tecnologie che possono vivificare ed aumentare, se usate in maniera consapevole, il rapporto reale di internazionalità, dove la relazione e il confronto, l’incontro con culture diverse e il riconoscimento dell’altro creano altri tipi di connessioni, intense e significative».
Dalla ricerca emerge anche e soprattutto come via sia tanta voglia di internazionalizzazione tra gli adolescenti italiani. Il nostro Paese si distingue difatti in ambito europeo per le forti aspettative che gli studenti ripongono sulla capacità e sul ruolo della scuola nel favorire una loro emancipazione di carattere internazionale, a differenza degli altri Paesi dove questa richiesta è inferiore perché la contaminazione interculturale è già in atto (soprattutto la Svezia e la Germania e parzialmente la Polonia, in virtù della vicinanza geografica e culturale con la Germania). E’ alta la percentuale, anche tra gli stessi studenti italiani che hanno partecipato alle attività internazionali, di chi ritiene che questi progetti siano ancora troppo pochi: lo dice il 68% dei nostri ragazzi, molti di più dei francesi (49%), degli spagnoli (43%), dei tedeschi (39%), dei polacchi (37%), degli svedesi (29%).
Da questo atteggiamento discende il giudizio complessivo sull’internazionalizzazione delle scuole molto più negativo da parte degli studenti italiani (56% degli intervistati dà voto insufficiente) rispetto alle opinioni degli studenti degli altri Paesi. In Svezia, l’83% dà un voto più che sufficiente, in Polonia l’83%, in Germania il 75%. Più simili a noi gli altri due Paesi latini, dove però i giudizi positivi superano quelli negativi.
Mobilità individuale: ancora troppo poco conosciuta in Italia, stimolata da pochi virtuosi
Il Ministero dell’Istruzione, in una Nota della scorsa primavera (843/2013), ha ribadito formalmente il proprio sostegno a favore delle esperienze di studio all’estero, indicandole come “parte integrante dei percorsi di formazione e istruzione”. Eppure, ancora metà delle scuole italiane non attiva iniziative internazionali. Forse è anche questo il motivo per cui solo uno studente italiano su tre (32%) è a conoscenza della possibilità di aderire a un programma di mobilità individuale. In Germania, la percentuale aumenta al 59%, in Svezia al 57%, un po’ meno in Spagna (54%) e Francia (42%); come noi solo la Polonia (31%).
In maniera trasversale su tutti i Paesi, la mobilità individuale è però apprezzata da tutti gli attori: studenti (soprattutto noi italiani con il 67%), i docenti, i presidi, i genitori; ad esempio, è favorevole il 58% degli insegnanti italiani, stessa percentuale per quelli francesi, 61% per i tedeschi e i polacchi, 64% per quelli spagnoli, 54% per quelli svedesi.
Un filo comune lega tutti gli studenti dei 6 Paesi europei analizzati: la scelta iniziale della nazione in cui vorrebbero trascorrere un anno all’estero ricade su quelli anglofoni, segno che l’apprendimento della lingua è preponderante nella fase di avvicinamento all’idea di poter passare un periodo lungo di scuola all’estero. Il quadro leggermente migliora se si analizzano invece le destinazioni effettive di quelli che hanno partecipato, che contemplano anche altri Paesi europei e dell’Asia (30% dei polacchi, 23% degli svedesi, 16% degli spagnoli, 14% dei tedeschi, 12% degli italiani) o dell’America Latina (25% degli italiani e degli svedesi). O dell’Africa, in virtù della propria storia coloniale, per i francesi (30%).
Adolescenti italiani, a scuola e nella vita, meno internazionali dei coetanei europei
L’Osservatorio ha voluto quest’anno anche comprendere quanto gli adolescenti italiani, nei loro atteggiamenti quotidiani e rispetto al proprio ambiente familiare, siano propensi a diventare dei “cittadini dei mondo” rispetto ai coetanei europei. E anche in questo caso, i dati non sono proprio confortanti.
Stando ai calcoli realizzati nell’indagine, un punteggio ben sotto la media europea (31,9) è quello che riescono ad ottenere i nostri studenti nell’indice di apertura all’estero, calcolato in base a numerose variabili (adesione a scuola ad attività di internazionalizzazione, conoscenza delle lingue, atteggiamenti interculturali, disponibilità e interesse verso esperienze di studio, lavoro e vita all’estero, ...). I nostri adolescenti si fermano a un punteggio pari a 27,5; meglio, ma sotto la media europea, francesi (29,0) e polacchi (29,3), al di sopra spagnoli, vera rivelazione di questa ricerca (35,0), tedeschi (35,1) e svedesi (35,5).
Tedeschi e polacchi ambiziosi e competitivi, spagnoli aperti e solari, francesi sciovinisti ma aperti alla condivisione, svedesi socialmente tutelati e internazionali dalla nascita: in questo quadro gli italiani si descrivono responsabili e socievoli, ma si dimenticano per strada i nostri valori distintivi, primo tra tutti quello della creatività. I genitori “chioccia” dei ragazzi italiani li rendono fanalino di coda nella classifica dei viaggi all’estero effettuati sia coi genitori che, soprattutto, da soli. A spingerli ad uscire dai confini nazionali ci penserà la crisi economica, che fa dire all’89% degli italiani e all’86% degli spagnoli di accogliere favorevolmente un periodo di lavoro all’estero di almeno due anni (% molto minori negli altri Paesi; 65% in Francia, 71% in Polonia).
Utilizzo delle lingue straniere nella vita quotidiana: se gli studenti italiani pretendono che sia la scuola a catapultarli verso esperienze internazionali, quando si tratta di agire autonomamente difficilmente vanno a comprarsi, ad esempio, un libro in inglese o sintonizzarsi su canali non italiani. A differenza dei coetanei di altri Paesi che sono agevolati in questo senso, visto che spesso la TV trasmette programmi non doppiati. Assistiamo quindi proprio a un diverso grado di esposizione nel vissuto di ogni giorno a seconda del Paese: se un po’ tutti gli adolescenti ascoltano canzoni in lingua straniera, gli italiani difficilmente guardano film, leggono giornali o libri che non siano nella nostra madrelingua. In altre nazioni, invece, vengono trasmessi film, programmi e quant’altro in lingua originale, soprattutto in Svezia e in Germania. Se un po’ tutti ascoltano quindi musica in lingua straniera (interessante che le percentuali più basse - 82% - si registrino nel Paese in cui si utilizza maggiormente la lingua inglese, la Svezia e le più alte - 94% - tra gli italiani), la forbice tra i Paesi latini e gli altri si distingue nettamente in altre voci: l’85% degli svedesi, il 52% dei tedeschi e il 44% dei polacchi vede tutti i giorni o spesso film in lingua straniera, mentre lo fa solo il 27% degli italiani e il 36% degli spagnoli e dei francesi. Inoltre l’86% degli svedesi guarda programmi tv in lingua straniera (46% i tedeschi, 43% i polacchi), mentre da noi solo il 38%, perché in Italia le trasmissioni sono tutte doppiate.
Torino, 3 ottobre 2013