Come ogni transizione tecnologica, anche quella dei Big Data ha i suoi lati oscuri, che hanno molto che fare con la nostra impreparazione a difenderci dagli abusi che proliferano nell’accelerazione tecnologica.
Se ne è parlato al convegno "Uomini e Macchine. Protezione dati per un'etica del digitale" che si è svolto alla Camera dei Deputati lo scorso 30 gennaio, in occasione della Giornata Europea della Protezione dei Dati, alla presenza del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro con la partecipazione di un ricco panel di esperti, accademici, giornalisti e rappresentanti dei consumatori.
“La neutralità della tecnologia è una chimera. – ha affermato Soro, aprendo i lavori - Il digitale è divenuto la trama stessa delle nostre vite, agente potentissimo di trasformazione sociale, struttura e sovrastruttura insieme, testo e contesto: la cornice entro cui si svolge ogni espressione dell'uomo, che condiziona secondo i soli parametri della funzionalità e dell'efficienza. Con Internet, la tecnologia da strumento si è fatta dimensione, ecosistema in cui siamo così profondamente immersi da non renderci conto fino in fondo delle sue implicazioni. La questione centrale, hanno osservato molti relatori, è l’inadeguatezza degli strumenti umani per interpretare le conseguenze della transizione tecnica, e in particolare l’assenza di codici comuni: non solo nel senso di norme – pur necessarie - ma proprio di significati condivisi. Solo tornando a mettere al centro l’individuo, dunque, è possibile recuperare il terreno perduto."
“Quello del rispetto dell’identità digitale - ha ricordato Licia Califano (Componente dell’Autorità Garante) - è un tema di diritti che riguarda non solo la libertà ma anche la dignità della persona. Il diritto alla protezione dei dati personali impatta ogni aspetto della nostra vita quotidiana, pubblica e privata.”
In sostanza, ribadisce l’Autorità, se cediamo gli elementi cardine della nostra identità a grandi multinazionali che hanno fine di lucro, in un modello che le premia proprio nella misura in cui riescono a rivendere i nostri dati a soggetti terzi, stiamo riducendo questi nostri diritti a un mero tema di margini industriali. Essi gestiscono le nostre informazioni con opachi, imperscrutabili algoritmi che ovviamente non hanno né possono avere la minima coscienza civica.
Si tratta di un problema che ci riguarda come individui, ma anche come collettività. Se per esempio vengono prese decisioni economiche, o peggio politiche, sulla base di queste distorsioni (per esempio: i bambini italiani imparano l’inglese più lentamente) i danni si moltiplicano in scala.
Ciò che dobbiamo temere quindi non è tanto la tecnologia in quanto tale, ma l’uso indiscriminato che sta prevalendo nei nuovi modelli economici da un lato, e la nostra pigrizia nel rendercene conto, dall’altro.
La generazione dei millennials è la più esposta al problema, anche perché è nata in un contesto dove la sorveglianza di massa è considerata una premessa, qualcosa di naturale e irrimediabile, che porta con sé la rinuncia implicita a certi diritti, in cambio di servizi più performanti. Per questo molti esperti indicano proprio nella fascia dei più giovani utenti di internet una delle categorie più a rischio.
Nel libro “Nasci, cresci, posta”, il giornalista Simone Cosimi e lo psicoterapeuta Alberto Rossetti si pongono il problema del perché le grandi piattaforme OTT hanno posto un limite arbitrario di età (i 13 anni) oltre i quali un ragazzo può iscriversi a un social network, immaginando che sia consapevole delle conseguenze pur avendo anche lui cliccato, distrattamente, sulla casella “sì” dell’accettazione delle condizioni di servizio.
“Tutte le decisioni strategiche di Facebook – sostiene Cosimi - comprese quelle apparentemente a tutela dei minori, non sono altro che una foglia di fico per non incorrere nelle ire delle giurisdizioni di qualche Paese, magari col rischio di un irrigidimento nelle politiche fiscali. Il destino e il business di queste grandi piattaforme ormai si basa sul grado di litigiosità e compliance con le legislazioni dei paesi in cui si sviluppa il loro giro d’affari. Se quindi pongono il limite a 13 anni lo fanno per andare incontro alla legislazione nordamericana, con effetti che però si estendono anche all’Italia. Oppure, se adottano soluzioni tecniche per impedire che un ragazzo si imbatta in contenuti violenti o peggio in utenti malintenzionati, non lo fanno perché assumono una responsabilità su questi temi, al contrario: lo fanno solo per alzare le mani e non essere chiamati in causa per aver in qualche modo favorito i comportamenti illeciti degli utenti adulti a danno dei minorenni”.
Se poi dal mondo dei social media scendiamo sul campo dei device, le conseguenze sono persino peggiori. La crescita esponenziale, nella “internet of things” di oggetti connessi (31 miliardi entro il 2020 secondo le previsioni dell’Eurobarometro), pone ogni giorno problemi nuovi. Esistono per esempio connected toys come la bambola Cayla, ritirata dai mercati francese e tedesco perché permette facilmente di intercettare dall’ambiente le conversazioni dei bambini, è emblematico.
Se questo video da un lato ci fa sorridere, dall’altro però dovremmo prendere sul serio il suggerimento di Luisa Crisigiovanni (Altroconsumo, membro BEUC), che nel suo intervento ha proposto di “iniziare a pensare di tenere i nostri device puliti con la stessa con cui curiamo l'igiene personale.“
“Del resto - ha concluso - se il quadro giuridico europeo rispetto alle connected things è inadeguato, occorre iniziare a regolare la sicurezza digitale dei dispositivi elettronici come accade già con gli oggetti meccanici di largo consumo”.
Per fortuna la consapevolezza di questi problemi sta aumentando: secondo i dati presentati da Altroconsumo, l’86 per cento dei cittadini europei pensa di poter essere vittima di un crimine informatico, ed è già un bel passo avanti.
Non mancano, per far crescere ancora questa consapevolezza pubblica, le provocazioni come quella del giornalista John Sudworth. che si è recato a Pechino nell’ora di punta, quando è popolata da 32 milioni di persone. Il reporter della BBC ha sfidato la polizia locale a identificarlo e arrestarlo in una strada qualsiasi dopo aver spedito alle autorità la propria fototessera. Usando le telecamere di sorveglianza, gli agenti cinesi hanno impiegato solo 7 minuti per trovarlo. Un dato che forse conforterà qualcuno, ma inquieterà anche molti altri.